Questi giorni, queste settimane, questi mesi. Ciascun momento di questo tremendo periodo, del quale è difficile prevedere la conclusione, rimarrà impresso nella nostra mente, per l’impatto deflagrante che esso ha avuto sulla nostra vita. Sarebbero tante le considerazioni da poter sviluppare da un punto di vista personale, ma non è questa la sede idonea per farlo. Né, del resto, è la mia intenzione.
Vorrei piuttosto provare a sviluppare alcuni ragionamenti, da condividere attraverso questo mio quasi-blog che, malgrado sia stato trascurato in maniera imperdonabile (l’ultimo articolo che ho scritto – unico nell’anno, peraltro – è stato a luglio del 2019), rappresenta per me pur sempre uno spazio digitale attraverso il quale porre all’attenzione di qualche estemporaneo lettore alcune brevi riflessioni.
Partirei dal titolo: “l’elogio della distanza”. Ho scelto queste parole per mettere in evidenzia come si sia verificato un palese cambio di prospettiva, che è sotto gli occhi di tutti: se sino a qualche settimana fa, in qualsiasi contesto, abbiamo cercato mezzi e soluzioni per accorciare lo spazio fisico che ci separava dal contatto con i variegati mondi con i quali entravamo in relazione – personali, professionali, amicali, etc. – ora dobbiamo porre enorme attenzione a verificare costantemente l’esistenza di un adeguato livello fisico di separatezza, per tutelare la nostra salute e quella delle persone con le quali ci relazioniamo.
Una “adeguata” distanza – che purtroppo ancora molti individui interpretano in modi del tutto personali – definisce dunque il limite invalicabile da non superare, nelle poche occasioni nelle quali attualmente ciascuno di noi si ritrova a fluttuare con apprensione nel mondo esterno, al quale ci affacciamo solo per esigenze indifferibili.
Ovviamente, la visita di un museo o di un luogo della cultura non rientra in queste fattispecie e quindi questi luoghi sono al momento desolatamente vuoti, anche se sono sempre più numerosi quelli che cercano soluzioni le più varie per mantenere vivo il legame con i propri pubblici. Di punto in bianco, le risorse digitali dei musei – immagini, fotografie, filmati, file audio, ricostruzioni virtuali, realtà aumentata, etc. – sono diventate asset incredibilmente preziosi, acquisendo un’importanza del tutto imprevista.
Sia a livello italiano che a livello internazionale, i musei stanno infatti dando fondo alla loro creatività per utilizzare, in modi per quanto possibili innovativi e originali, tali risorse: è tutto un fiorire di inedite forme di narrazione, finalizzate a presentare in forma digitale le collezioni permanenti, o sezioni di esse, piuttosto che oggetti e reperti iconici; o piuttosto, ad “aprire” luoghi generalmente inaccessibili al pubblico, come i laboratori di restauro o i depositi, o ancora materiali o reperti gelosamente conservati (e spesso dimenticati) nei depositi o nelle casseforti dei musei, che diventato inaspettatamente protagonisti dei flussi di comunicazione digitali, attraverso siti internet e profili social.
Alcuni musei lanciano invece vere e proprie “sfide” (link), come fatto dal Rijksmuseum di Amsterdam e dal Getty Museum di Los Angeles (vedi foto più sotto) – con iniziative che a dire il vero richiamano quella lanciata dal nostro Mibact nel 2017, con la campagna social “l’arte ti somiglia” – stimolando i propri visitatori più volenterosi a replicare le proprie opere più famose attraverso dei veri e propri tableaux vivants.
Sono davvero tanti gli esempi a cui potrei fare riferimento, ma questo esercizio si risolverebbe nella creazione di un ennesimo elenco di risorse digitali liberamente disponibili, che mi sembra di scarsa utilità. Piuttosto, mi sembra importante sottolineare come tutti questi encomiabili sforzi denotano – il più delle volte – una totale mancanza di programmazione: dunque, la creatività sopperisce (o cerca di farlo…) alla mancanza di una vera e propria strategia digitale dei musei, lasciando spazi a soluzioni talvolta goffe e il più delle volta del tutto improvvisate.
Questo è un tema su cui riflettere, soprattutto pensando al futuro dei musei.
Non avendo doti divinatorie, mi è del tutto impossibile prefigurare uno scenario preciso con il quale i musei si troveranno a confrontarsi quando il rischio del contagio da Covid-19 sarà stato in tutto o in parte neutralizzato; ma vorrei almeno provare a immaginarne una probabile o, piuttosto, possibile. E questo esercizio vorrei provare a farlo non ragionando in termini macro-economici, cioè di politiche culturali pubbliche, quanto in una prospettiva micro, di tipo gestionale, che è quella che conosco un po’ meglio.
Data questa prospettiva di osservazione, il punto di partenza di una riflessione è a mio avviso costituito dal rapporto tra il museo e i propri pubblici. I musei, in questo “nuovo” mondo che ci attende, e che a mio avviso sarà irrimediabilmente differente da quello che abbiamo sino ad ora conosciuto e vissuto, potranno riferirsi a due tipi di visitatori: quelli reali e quelli digitali.
Per quanto concerne la prima categoria di pubblico, stante le fosche previsioni sulla ripresa dei flussi turistici internazionali, occorre attendersi un drastico ridimensionamento della capacità di attrazione dei musei, dato che la componente straniera (che per alcuni dei maggior musei statali arriva anche a pesare fino al 50% degli ingressi annuali) risulterà inizialmente del tutto azzerata. Occorrerà quindi, per un certo tempo, riferirsi in modo prioritario ad un pubblico “di prossimità”, presente nel territorio nel quale è ubicato il museo o in quelli immediatamente limitrofi, ma comunque – in prima battuta – entro i confini regionali.
Occorrerà inoltre ripensare alla programmazione culturale dei musei, a cominciare dalla possibilità di realizzare le grandi mostre, in quanto esse risulteranno difficilmente in grado di sostenersi, dovendosi confrontare con una domanda potenziale fortemente ridimensionata e quindi con un minor livello di flussi di entrate auto-generate; nonché, circostanza affatto secondaria, con flussi di risorse (sia pubbliche che private) molto più esigui rispetto a quanto sino ad ora accaduto.
E dovrà cambiare anche il processo decisionale, accogliendo – in modo molto maggiore che in passato – forme di progettazione partecipata, attraverso le quali co-definire, insieme alla comunità locale e ai pubblici di prossimità, i temi da affrontare e le modalità di presentazione degli stessi. Si renderà in altri termini necessario “ridurre la distanza” con i propri pubblici di più immediato riferimento: non la distanza geografica, quanto piuttosto quella cognitiva, facendo quindi attenzione a garantire adeguati livelli di accessibilità per tutte le diverse categorie di visitatori.
In una società multietnica come la nostra, questa scelta obbligata potrà peraltro trasformarsi in una importante occasione per rendere il museo ancora più protagonista di processi di inclusione sociale, rivolgendo ulteriore attenzione alle comunità straniere presenti a livello locale e progettando – per loro e con loro – nuove forme di attività culturale e nuovi supporti di mediazione.
L’altra categoria di visitatori, quelli digitali, dovranno essere considerati in modo probabilmente molto diverso da come è accaduto sino a questo momento: non già una mera estensione dei pubblici attuali, con i quali attivare forme di dialogo che si innestano su rapporti già esistenti, quanto piuttosto una platea del tutto nuova, di pari rango rispetto ai visitatori reali, con la quale intessere una relazione che è senza dubbio “a distanza”, ma che non per questo deve necessariamente risultare meno intensa e gratificante di una vera e propria esperienza di visita.
In questa prospettiva, occorrerà massimizzare il loro livello di coinvolgimento (il cd. engagement), individuando anche nuove forme di visita che preservino – ad esempio – la possibilità di una qualche interazione con il personale del museo o con qualificati addetti ai lavori, anche esterni ai musei (penso, in particolare, alle guide, una delle categorie che in questo frangente ha visto azzerarsi le proprie possibilità di lavoro). La “distanza digitale”, in altri termini, potrà essere ridotta accrescendo il gradiente di relazionalità associato alla relazione che il museo saprà attivare con tale platea di visitatori, attraverso il proprio sito, i propri canali social o – anche – ricorrendo a nuovi linguaggi, come quello cinematografico, e nuove forme espressive, come i videogiochi.
In definitiva, la distanza – che in questo momento rappresenta l’elemento inibitore delle attività culturali poste in essere dai nostri musei – può a mio avviso diventare invece l’elemento catalizzatore di un nuovo rapporto tra il museo e i propri visitatori, reali e digitali, che potrebbe trovare la sua ragione d’essere anche quando questa immane tragedia sarà passata.